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Tra immagini e interpretazione alla personale di Gabriele Giardini
di Silvia Manca
Roma, 24 Gennaio 2007, Sala Giubileo del Vittoriano, ore 18:00: inaugurazione della mostra di Gabriele Giardini. Una personale.
Gabriele mi aveva chiamata qualche sera prima per avvisarmi dell’evento. Lo avevo conosciuto quasi un anno fa, casualmente, ad una festa. Lui si era presentato come ‘lo scultore’ e io come ‘il critico d’arte’. Non ci conoscevamo ancora e avevamo bisogno di ‘etichette’. Al posto del biglietto da visita estrasse una serie di immagini raffiguranti le sue opere di ognuna delle quali mi diede una rapida ‘spiegazione’. Interpretazione-à-porter.
Qualche tempo dopo eravamo andati assieme all’inaugurazione di una mostra di videoinstallazioni di un artista free-lance che esponeva in una galleria di San Lorenzo e avevamo parlato la sera a cena di questa mostra al Vittoriano che Gabriele aveva ‘in cantiere’. Qualche altra uscita a tema e poi era sparito, ognuno dei due inghiottiti dalle nostre mille attività. Fino al giorno della telefonata che mi annunciava che la fatidica mostra era diventata realtà.
Arrivai all’inaugurazione un po’ più tardi delle 18:00. Gabriele mi accolse con la sua solita ironia elegante e pungente. “Carino qui, proprio nella sala sotto la mostra di Matisse e Bonnard” dissi. “Già, a loro hanno dato le sale più grandi perché sono vissuti un po’ prima e sono già stati ‘santificati’ da un pezzo!” ha aggiunto Gabriele con un’espressione tra il serio e lo scherzoso.
La prima scultura che si incontra entrando nella sala è ‘Compressione della mente’. Una scelta d’impatto. Come la testa d’ariete (il suo segno zodiacale) che spunta tra quel vortice di immagini. Un ricordo d’infanzia di una scultura simile che aveva visto sul caminetto di nonno Luigi, anche lui scultore. Da quell’ideale compressione lignea di ricordi, impressioni, emozioni, Gabriele inizia la nostra ‘visita guidata’. Ho un taccuino in mano e lo ascolto mentre parla. Premute e stipate in quello spazio cubiforme, compresse eppure desiderose di uscire da quell’ideale macchina infernale o paradisiaca, comunque alchemica, le immagini si trasformano, si generano tra loro: animali partoriscono altri animali di diversa specie, parti anatomiche che prendono vita, elementi vegetali e umani che si intrecciano tra loro in un ideale “ritorno alla natura” e per generare “un’ideale qualità della relazione” mi spiega Gabriele. “Si tratta di impressioni, ricordi che fluiscono, visi che ho incontrato, che ho visto o che ho sognato, un giorno, magari, scolpirò anche il tuo se mi viene in mente”, dice Gabriele, autorizzando, in un certo qual modo, l’ipotesi che quella ‘compressione’ vada ben oltre la razionale sfera di elaborazione secondaria di una mente consapevole e cosciente di tutto il suo operato. Quasi ricordando ciò che diceva Merleu-Ponty a proposito del ‘dubbio di Cèzanne’, mi venne in mente la frase che diceva che ‘prima dell’esecuzione l’artista percepisce solo una febbre vaga’ di ciò che si aprirà un varco verso l’esterno, che non è del tutto gestibile nemmeno dallo stesso autore. Così Gabriele, (di)spiegando le sue opere più di quanto già non si (di)spiegassero esse stesse agli occhi di chi poteva/voleva accoglierle, raccontava a me e al mio amico archeologo che mi aveva accompagnata, di come il ‘Pescatore che esce dall’acqua’, una scultura in vetroresina che simula una testa ‘rotta’ che esce dall’acqua, sia un’opera il cui trattamento della materia e le numerose rughe evocano l’immagine di una figura erosa dal tempo e dall’esperienza. La vecchiaia, momento della vita con il quale Gabriele dice di avere un buon rapporto, compare in molte altre sue opere, come nella rappresentazione mitologica del Tevere in vetroresina, un’anziana testa i cui filamenti della canuta chioma sfumano in un celeste-azzurrino che simula l’acqua.
Vecchiaia del corpo che tuttavia mantiene uno sguardo vivo, acceso, anzi, accesissimo, come nel caso del quadro con testa di vecchio in tecnica mista che sfoggia un azzurro che sembra andare ben oltre il visibile, verso l’altrove. Nella parte laterale del quadro, barocche volute di fumo spiraliformi che, per Gabriele, rappresentano una mente sempre viva. Come le rughe filamentose del vecchio Tevere: gangli psichici/corporei che si espandono ecletticamente in varie direzioni e dimensioni.
Mentre l’occhio vaga per le due sale, è proprio questo eclettismo, questa estrema varietà, ciò che emerge dalle opere di Gabriele. Tecniche varie e miste, soggetti ‘naturalistici e astratti’ (ma esiste una differenza?), citazionismo, nomadismo e chi più ne ha più ne metta. Se avessi voluto parlare delle sue opere solo come uno storico dell’arte, avrei rintracciato nelle sue opere con il pirografo fantasie arcimboldesche e manieristiche, nei suoi vecchi avrei visto rugose e nervose figure leonardesche, nelle sue provocatorie macchine ‘che respirano’ – come ‘Respiro’, per esempio – avrei scorto duchampiani marchingegni surreal-dada. E ancora, negli occhi sparsi per il corpo di un’immagine di donna sospesa su un precipizio e sorretta solo da ganci che le trafiggono le carni, avrei visto l’eco di una poupee di Bellmer e le sospensioni di uno Sterlac, oggetti molli alla Dalì, futuristici tubi metallici o simulanti tali materiali avvolti in manieristici e barocchi intrecci, fino agli enigmatici disegni di un presunto albero della vita o di imagines inconsce di personaggi familiari disposti in maniera piramidaliforme usati come copertine di testi psicoanalitici. A chi rimprovera a Gabriele l’eccessivo eclettismo, ovvero la mancanza di un ‘indirizzo stilistico’, lui risponde che le sue opere hanno la varietas delle sue emozioni, delle sue pulsioni, della sua stessa vita in continuo scorrimento, trasformazione, sublimazione. In barba a qualunque moda che vuole che ogni artista sia catalogabile o etichettabile. E dunque, se prendiamo per buone le parole di Lacan secondo il quale l’uomo è lo stile nel quale e attraverso il quale si produce e si manifesta, questa camaleontica e vitalistica esplosione di varietà dovrebbe essere il sintomo di una psiche che ha attraversato molti sentieri, molti più di quelli delle sue visibili raffigurazioni ripresentazioni che emergono davanti agli occhi.
Gabriele continua a ‘guidarci’ qua e là attraverso le sue opere,e di ognuna di esse dice qualcosa in più o in meno di ciò che io, lui o chiunque altro possa vedere o non vedere. Mentre le (di)spiega, lamenta il fatto che storici, critici d’arte, galleristi, mercanti, giornalisti e altri ‘esperti del settore’, hanno snobbato le sue spiegazioni arrogandosi il diritto di interpretare essi stessi le opere. Loro, e solo loro, erano in diritto di poter imporre la violenza interpretativa, prevaricando persino l’autore stesso delle opere.
Ma, in questo spettacolo, chi aveva il diritto di interpretare cosa? C’era veramente qualcuno – compreso lo stesso artista –, in grado di poter dire veramente su quelle opere se non ri-scrivendo il copione di un’altra scena? Gabriele aveva notato che durante la passeggiata attraverso le opere, io, il piccolo critico in erba senza alcuna referenza e senza neppure un lavoro, ero stata l’unica che si era limitata ad osservare senza interpretare. Avevo un taccuino in mano e non avevo scritto praticamente quasi nulla, ero andata lì per guardare…ammesso che sarei veramente riuscita a vedere qualcosa che mi avesse fatto segno per scrivere un articolo in cui non avevo la minima idea di ciò che avrei scritto. L’avrei visto – forse – strada facendo…
Su Gabriele hanno scritto Strinati, il curatore – almeno formalmente – della mostra, la Ferloni, Tallarico ed altri ben più ferrati ed importanti di me. Perciò lascerò a loro la ‘critica del giudizio’. Per quanto mi riguarda, scrivo impressioni che vedo lungo il tragitto, lungo uno di quei tanti sentieri che bucano l’occhio che Gabriele ha dipinto con il pirografo accendendo il mio sguardo. Dall’attimo in cui ho visto l’immagine di quell’occhio sospeso, lì dove quella donna con gli occhi sparsi su di sé fluttuava su un precipizio, lì dove l’ho vista in un così precario equilibrio, ho fatto mia quell’immagine e ne ho (ri)scritto.
Mi sono fermata davanti all’ultima opera: “Nuova civiltà”, quella con cui Gabriele conclude il suo tour per una miriade di visitatori distratti e inconsapevoli ai quali si diverte a presentarsi come il custode della sala e a raccontare di un presunto autore delle opere giovane e sfortunato che è morto precocemente in circostanze misteriose per poi rivelarsi tra il loro stupore e la loro indignazione.
Davanti a quest’opera composta di cementi e frammenti di tubi da sempre attraversati dai fili conduttori dell’energia, elettrica o no, e vernici di vario colore, ci siamo fermati tutti e tre: uno scultore, un critico d’arte e un archeologo. Al centro del quadro c’era un turrito tubo contornato da anelli metallici disposti in gruppi concentrici che si espandevano verso l’esterno in un progredire di colori che partivano dal pulsante cuore rosso per poi proseguire nel verde degli insediamenti anellari e nell’azzurro delle rovine un po’ più in lontananza, fino a giungere all’argento metallico dei bordi. “Non vorrei altri grattacieli alti come sculture metalliche in cui vivere…vorrei un’ambientazione che torni alla natura…” ha detto Gabriele. “È qualcosa di sommerso che sta riemergendo dagli abissi prepotentemente, per riprendersi lo spazio che gli appartiene…” ha detto l’archeologo. “Vedo la mia Atlantide, il pulsante cuore nuragico e turrito e gli insediamenti del villaggio tutto intorno tra il verde del prato. Più in là c’è il mare della costa, e l’azzurro che anche simula la lontananza, come insegna Cèzanne. E, fuori da questo piccolo mondo antico che grida e urla di essere restaurato reimponendosi alla nostra vista, riemergendo dal mare come un atollo, c’è il metallico bordo di quelle fredde civiltà metalliche che ignorano il continuo ciclo della vita”. Ai miei occhi era una civiltà nuova che restaurava una civiltà antichissima di quasi 2000 anni, quella nuragica, dentro quel quadro vedevo le origini che mi appartengono. Il passato riviveva nel presente preannunciando l’a-venire, come sembrava dirci la vicina opera ‘Ciclo continuo’, che alludeva proprio all’eterno e continuo ciclo della vita.
Per un attimo, davanti a quel quadro, tre vissuti di tre persone diverse tra loro per origine, temperamento e percorsi, per una breve frazione, avevano visto qualcosa di molto simile. Da parte mia, non un’interpretazione, ma l’unica cosa che, portandomi dietro il mio bagaglio filogenetico, potessi vedere con questi miei occhi. Per uno strano miracolo, per quella grazia che unisce per un attimo della vita gli animi, quella che alcuni sogliono chiamare poeticamente ‘affinità elettiva’ e altri chiamano scientificamente ‘transfert’, la mia visione era stata com-presa dai loro sguardi.
Ed è per questo che lascerò a voi, a chiunque fosse interessato a vedere queste opere, la curiosità di andarle a vederle ‘live’. Io vi ho solo raccontato una breve impressione di ciò che ho visto, e anche di ciò che – forse – non ho visto ma che immaginato: un racconto senza foto e senza interpretazioni/spiegazioni, come non avrebbe potuto essere altrimenti per chiunque non desideri
imbalsamare in una teca di vetro una materia viva come questa che scorre continuamente come la vita stessa.
Erano le 19:30. il Vittoriano stava chiudendo, i custodi avevano spento i riscaldamenti e iniziavano a spegnere le luci. Ci siamo avviati verso l’uscita. “Abbiamo spento ‘Respiro’, “Altrimenti – mi dice Gabriele – continuerà a respirare per tutta la notte spaventando a morte qualche custode…”.
Chi fosse interessato a vedere le opere di Gabriele Giardini può contattarlo ai seguenti indirizzi di posta elettronica:
Sito: www.gabrielegiardini.com - Email: gabrielegiardini@libero.it
Silvia Manca [Critico d'Arte]
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